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Un recente studio australiano pubblicato su Scientific Report ha portato all’individuazione del marker genetico della longevità, un risultato sorprendente per la scienza. Conoscere il segreto della longevità significa avere la possibilità di studiare l’invecchiamento e i fenomeni di decadimento organico da un punto di vista molto più approfondito. Si tratta, dunque, di individuare e approfondire la correlazione tra l’invecchiamento e le alterazioni epigenetiche che coinvolgono i processi di metilazione del DNA.
Lo studio australiano: cosa c’è alla base della longevità
Sulla rivista Scientific Report è stato recentemente pubblicato un interessante studio: i ricercatori dell’University of Western Australia in collaborazione con quelli della Commonwealth Scientific and Industrial Research Organisation di Crawle, Hobart e Perth sono riusciti ad individuare e identificare il predittore genomico di fine vita. Si tratta, dunque, di un elemento influenzato dalla densità di nucleotidi CpG, i quali definiscono il target dei processi di metilazione del DNA.
In relazione al tema della longevità, si parla spesso di metilazione del DNA. Si tratta, dunque, di un processo di modificazione genetica, consistente nel legare un gruppo di metile ad una base azotata. Il suo collegamento con il fenomeno dell’invecchiamento dipende dal fatto che l’epigenetica giochi un ruolo fondamentale nel determinare il fenotipo dell’invecchiamento. Di fatto, gli studi hanno dimostrato che solo il 20 – 30% della durata della vita può essere attribuita ai geni.
Densità di nucleotidi CpG e invecchiamento
Ormai da tempo gli studi scientifici hanno evidenziato che con l’avanzare dell’età la metilazione del DNA tende ad aumentare o a ridursi a prescindere dai processi epigenetici. Tale evidenza conferma un’importante considerazione: quando la concentrazione dei nucleotidi CpG aumenta si va incontro a una maggiore aspettativa di vita. Tale scenario migliore deriva dall’opposizione alla disregolazione generata dall’accumulo di metilazioni che si verificano durante il ciclo di vita usando solamente 42 specifici geni promotori.
I risultati della ricerca australiana sono arrivati indagando su altri vertebrati notoriamente longevi e attingendo a 4 database internazionali. Dunque, si conferma che la concentrazione di isole di CpG promuova la longevità. È proprio tale evidenza a segnare la strada per la successiva scoperta del primo predittore dell’aspettativa di vita a partire da marker genetici. Oggi le conseguenze pratiche di tali innovazioni sulla vita degli esseri umani non sono ancora visibili. Si tratta, principalmente, di cominciare dalla valutazione dell’ipotesi su esseri viventi con grandi aspettative di vita – come le tartarughe delle isole della Pinta, in grado di vivere fino a 120 anni – oppure su specie ormai estinte – come il mammut lanoso che aveva un’aspettativa di 60 anni.